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Vivian Maier, Chicago, IL, August 16, 1956. © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York. Vivian Maier, Chicago, IL, 1956. © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York.

Vivian Maier: i rullini nel cassetto

Qualche sera fa si è aperta, qui a Roma, presso la ILEX Gallery, una mostra dedicata alla fotografa americana Vivien Maier. È una bella raccolta di trenta belle foto, e la visita è valsa la pena.
La Maier mi affascina, così come mi colpiscono le foto di Lisette Model e di Diane Arbus. E le sue foto sembrano oscillare tra l’eleganza un po’ distaccata della prima e l’angoscia lacerante della seconda. Ma, ritornando a casa dalla mostra, non erano tanto le considerazioni sulle immagini che mi si presentavano, quanto un dubbio sottile, un tarlo che era nato leggendo la vicenda del recupero delle fotografie della Maier. Infatti quella strana bambinaia, fotografa per passione, scattava foto che non mostrava a nessuno. Le scattava con regolarità, un rullino la giorno, come fosse stata una prescrizione medica. E ha lasciato 100.000 scatti. Mai visti dal pubblico, probabilmente riposti subito con cura, come faceva con i piccoli oggetti che trovava in strada e riportava a casa, o con i ritagli di giornale archiviati con meticolosità e messi via. Senza farli vedere a nessuno. Assurdo?

Vivian Maier, New York, NY, October 1954. © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York.
Vivian Maier, New York, NY, October 1954. © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York.

Ma la cosa più strana erano i rullini. Le centinaia di rullini ritrovati intatti, scattati e mai sviluppati. Forse per mancanza di soldi, dato che se la passava male, sembra. Ma allora perché comprare altri rullini e scattare ancora, per anni e anni?
E mi è venuto in mente subito un altro nome: Gary Winogrand. Contemporaneo, quasi coetaneo. Anche lui sempre in strada con una macchina fotografica, lui una Leica con il 28mm; la Maier in prevalenza con una Rolleiflex, come quella della Arbus. Lei, la Maier, scatta centomila negativi e lascia centinaia di rullini da sviluppare. Lui, Winogrand, scatta (pare) sei milioni di foto e lascia 6600 rullini da 36 pose nel cassetto, di cui 2500 ancora da sviluppare.

Vivian Maier, New York, NY, October 1955. © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York.
Vivian Maier, New York, NY, October 1955. © Vivian Maier/Maloof Collection, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York.

Ma, mi chiedevo ieri sera, perché quei due, Winogrand e Maier, non vengono presi dal sacro furore di tutti i fotografi, quello che ti fa correre a casa a stampare o elaborare per vedere come sono venute? Perché non vogliono guardare le loro immagini dopo? Winogrand, si sa, sosteneva che doveva lasciare decantare le immagini finchè non fossero sparite dalla mente le sensazioni provate al momento dello scatto. Per quello che riguarda la Maier non sappiamo se avesse una sua opinione in merito: forse le mancavano soltanto i soldi. Tuttavia, quel comune atteggiamento del rinunciare a vedere il risultato degli scatti induce ad altre riflessioni.
La prima riflessione è che per questi fotografi, maniacali, autisticamente ripetitivi nella loro ossessione di scattare immagini, persone che sembrano voler controllare il mondo intorno a loro fermandolo in ogni istante e sotto qualsiasi luce. Il gesto dell’appropriazione, che si realizza premendo il pulsante dell’otturatore, è l’atto sommo e l’unica cosa che conti. I negativi di Winogrand mostrano intere raffiche di foto scattate senza minimamente voler inquadrare alcunchè in maniera specifica. Quelli della Maier contengono pochi scatti, a volte solo uno per ogni inquadratura, ma passano dalle persone alle ombre, della strada agli oggetti abbandonati vicino ai marciapiedi. Fotografi onnivori e bulimici, entrambi: lui è un divoratore instancabile di pellicola, lei si concentra a mordere piccoli pezzi di realtà con metodo paziente e costante.

La seconda riflessione è sull’irrilevanza del risultato finale. Per entrambi i fotografi, se nell’archivio rimasto ci sono i negativi sviluppati spesso, per contrasto, non ci sono i provini, e se questi ultimi esistono sono ammucchiati senza troppo interesse nei loro raccoglitori. Disinteresse, irrilevanza. Meccanismo in qualche modo simile a quello della creazione dei mandala buddisti: la realizzazione paziente dell’opera è fondata sulla consapevolezza costante della sua vanità e inutilità nel mondo. La fotografia è un mandala che non sposta di un millimetro ciò che la vita produce, non sposta i nostri destini, non ci salva.

Durante la visita alla mostra Vivian Maier: Where Streets Have No Name, ILEX Gallery @10b Photography Gallery, Roma. © Ruggero Passeri.
Durante la visita alla mostra Vivian Maier: Where Streets Have No Name, ILEX Gallery @10b Photography Gallery, Roma. © Ruggero Passeri.

Ed eccoci quindi al terzo punto di questo ragionamento. L’atto del fotografare, come ogni altra azione, conta in quanto cerimonia di dimostrazione della nostra esistenza, ma la sua compiuta realizzazione in immagine stampata non interessa poiché quest'ultima non modifica tale esistenza, né cambia il mondo. E il mondo, probabilmente, è comunque incomprensibile e difficilmente accettabile. I soggetti umani di Maier e di Winogrand sono passanti qualsiasi, visibilmente non felici, difficilmente penetrabili dalla nostra mente e forse, tutto sommato, umanamente disumani. Il mondo fotografato è comunque fuori da noi, e non è noi. Lo fotografiamo cercando di dargli un senso, ma questo nostro tentativo conduce all’angoscia, perché quel senso non esiste e noi ne siamo consapevoli. Il dolore del vivere è un rombo cupo che attraversa le nostre giornate. E gli esseri umani, quando sono umani, sono destinati ad essere soli. Sono soli, con una qualche pacatezza morbida, nelle foto di Vivien Maier. Lo sono, con fredda, lucida aggressività, nelle immagini di Winogrand. E sono ancora più soli, in un’angoscia cosmica, come inchiodati da un dio crudele in un destino disperato, nelle foto di Diane Arbus.

Durante la visita alla mostra Vivian Maier: Where Streets Have No Name, ILEX Gallery @10b Photography Gallery, Roma. © Ruggero Passeri.
Durante la visita alla mostra Vivian Maier: Where Streets Have No Name, ILEX Gallery @10b Photography Gallery, Roma. © Ruggero Passeri.

Dunque, è forse una scelta consapevole che le foto restino nascoste nella gelatina della pellicola. Le foto non cambiano il nostro destino. Il gesto è tutto. Verità da meditare. Tanto più oggi, in questo mondo non più analogico ma digitale, dove tutti noi mostriamo tutto di noi a tutti, e ci assorda il rumore generato da miliardi di immagini spesso simili, da fotografie diffuse come mere secrezioni psichiche di milioni di individui (infine) non pensanti. [ Ruggero Passeri ]

Vivian Maier: Where Streets Have No Name
ILEX Gallery @10b Photography Gallery, via San Lorenzo da Brindisi, 10b - Roma
4 novembre 2016 – 5 gennaio 2017
prorogata al 5 aprile 2017

orario: da lunedì a venerdì, ore 11,00 - 13,30 e 14,30 -18,00 | sabato, ore 12,00 -18,00 | domenica chiuso
ingresso: libero | 7,00 € la visita guidata, ogni sabato alle ore 12,00 su prenotazione
info: 06 70306913
www.ilexphoto.com


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[ RISORSE ESTERNE ]
◉ [ mostre ] Vivian Maier a Roma

[ RISORSE ESTERNE ]
Vivian Maier
Garry Winogrand
ILEX Gallery
10b Photography Gallery






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pubblicato in data 09-11-2016 in NOTIZIE / OPINIONI

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