Le parole sono importanti. I sostantivi in particolare hanno un senso di univocità, servono appositamente a dare un nome alle cose e a distinguerle dalle altre. Penso che il reportage debba rimanere ancorato alla sua funzione informativa e giornalistica, deve dirci Chi, Cosa, Dove, Quando e, diamine, Perché, un perché studiato a fondo e che abbia valore conoscere.
L'apertura scelta dal The New York Times per la versione online del reportage They Are Slaughtering Us Like Animals di Daniel Berehulak.
Ne è un esempio They Are Slaughtering Us Like Animals del fotogiornalista australiano Daniel Berehulak, pubblicato su The New York Times a dicembre del 2016, un approfondito resoconto degli omicidi, spesso sospetti di essere vere esecuzioni sommarie, che insanguinano le strade di Manila e del resto delle Filippine da quando il presidente Rodrigo Duterte ha avviato una spietata guerra alla droga che ha di fatto scatenato membri delle forze dell’ordine così come improvvisati vigilantes in una caccia che non fa distinzione tra spacciatori ed utilizzatori.
Dal reportage They Are Slaughtering Us Like Animals di Daniel Berehulak, pubblicato il 7 dicembre 2016 sull'edizione online del The New York Times.
Nei trentacinque giorni in cui è stato a Manila, Berehulak ha documentato 57 omicidi in 41 scene del crimine, il dolore dei familiari delle vittime e il sovraffollamento delle carceri e dei centri di detenzione improvvisati per ospitare, come animali in un allevamento intensivo, le centinaia di migliaia di persone arrestate nel corso di questa campagna. Nella versione online dell’articolo di Berehulak è presente anche una mappa interattiva che riporta le 41 scene del crimine visitate dal reporter con dei link alla Street View di Google che, in una sorta di realtà aumentata, ricordano che si tratta di luoghi normali, vissuti e veri. E la verità è un altro aspetto imprescindibile per un reportage, non intesa come fatto incontrovertibile, né tanto meno un’impossibile registrazione asettica, quanto piuttosto una narrazione onesta e attendibile perché affidata ad un professionista dell’informazione che, come tale, è vincolato ai valori deontologici della categoria e che mette a garanzia il capitale di credibilità guadagnata da sé e dalla testata che lo pubblica, in un periodo storico di relativismo imperante in cui le fonti di informazione selvaggia si moltiplicano esponenzialmente e si mettono in discussione persino i fatti scientifici.
La Google Street View del luogo dell'omicidio mostrato nell'immagine precedente. Dal reportage They Are Slaughtering Us Like Animals di Daniel Berehulak, pubblicato il 7 dicembre 2016 sull'edizione online del The New York Times.
Diversamente mi risulta inappropriato usare il sostantivo reportage per la semplice fotografia di viaggio o per la cosiddetta street photography, qualunque cosa sia, perché sebbene rientrino nella categoria della fotografia definita straight che, in opposizione a quella staged, non prevede un intervento creativo o manipolatorio da parte del fotografo nella preparazione del set e nel posizionamento delle luci, mancano comunque dell’irrinunciabile presenza di tutti quegli elementi caratterizzanti che ho elencato in apertura e acquisiscono valore principalmente per le loro caratteristiche estetiche e formali, che di sicuro arricchiscono anche un buon reportage ma nel cui caso rimangono subordinate.
Dal reportage They Are Slaughtering Us Like Animals di Daniel Berehulak, pubblicato il 7 dicembre 2016 sull’edizione online del The New York Times.
Un reportage propriamente definito è un servizio reso: informa compiutamente i destinatari e dà voce ai soggetti rappresentati, spesso in una funzione di riequilibrio e garanzia per i più deboli, deboli anche semplicemente in quanto non troverebbero spazio nella mole di immagini che ci assalgono quotidianamente, se non grazie al lavoro del reporter. Per quanto per un fotogiornalista il reportage sia un lavoro, spesso commissionato, il suo ruolo rimane idealmente quello di un intermediario, in una transazione in cui i beneficiari sono i lettori ed i protagonisti sono i soggetti ritratti e le loro storie. Una raccolta di foto, per quanto coerente, ordinata, geograficamente o cronologicamente organizzata, emozionante o pietistica, non è un reportage se il fine ultimo è il posizionamento di un prodotto, la partecipazione ad un concorso, la visibilità del fotografo.
La mappa interattiva a corredo del reportage They Are Slaughtering Us Like Animals di Daniel Berehulak, pubblicato il 7 dicembre 2016 sull'edizione online del The New York Times.
Non si tratta di una distinzione sul valore di diversi generi fotografici ma non la ritengo neppure una questione di gusto. La permeabilità tra generi è consolidata e fruttifera ma il punto di partenza deve essere la consapevolezza di cosa si sta facendo e delle motivazioni. L’uso improprio o distratto dei sostantivi, in particolare da parte degli addetti ai lavori, crea confusione ed appiattimento. Probabilmente uno dei possibili contrari del concetto di fare cultura. [ Davide Bologna ]
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[ RISORSE ESTERNE ]
◎ Daniel Berehulak
◎ They Are Slaughtering Us Like Animals di Daniel Berehulak
pubblicato in data 15-02-2017 in NOTIZIE / OPINIONI
DavideBologna DanielBerehulakFPmag
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