1 / 5       Children with no Identity. © Abdollah Keidari.

2 / 5       Dr Beat Richner & Kantha Bopha. © Eric Sander.

3 / 5       Balaknama, Slum Kid Reporters. © Melanie Dornier.

4 / 5       Fish and Morning Glory (Lake Clinic Cambodia). © Patrick Firouzian/LakeClinicCambodia/Global Roots.

5 / 5       IKKT. © Try Sophal.

The Impact Project: spunti di riflessione

Che l’attenzione si rivolga in modo pressoché monocorde verso eventi e situazioni ad alto tasso di tragicità, è una critica che il fotogiornalismo subisce da tempo immemore. Ne d'altronde sarebbe facile contraddire chi sostiene tale tesi. I motivi sappiamo bene che sono molteplici: si va dall’interesse spesso morboso del pubblico alla maggiore facilità con cui un buon fotografo, con un po’ di pelo sullo stomaco, può costruire immagini potenti al cospetto di eventi tragici.
Proprio per tentare di offrire una compensazione a questo atteggiamento nasce The Impact Project, la serata di proiezioni ideata da Françoise Callier nell’ambito dell’Angkor Photo Festival & Workshops e dedicata alla presentazione di lavori fotografici che, al contrario, si pongono come obiettivo quello della documentazione di eventi e attività positive.
Un’iniziativa sicuramente lodevole, ma che non può non lasciare aperti degli interrogativi, alcuni dei quali inquietanti. Quello più importante riguarda le motivazioni che spingono i fotografi migliori a operare univocamente in direzione della ricerca di eventi luttuosi e calamità assortite, delegando a soggetti meno dotati la documentazione di fatti positivi. Per quanto questa affermazione possa apparire drastica, in realtà rispecchia in pieno quello che al termine della proiezione si è costretti a pensare. Fatta eccezione per il lavoro Children with no Identity dell’iraniano Abdullah Heidari, il livello iconico di questi lavori rivolti al lato positivo della vita appare infatti mediamente molto basso, tanto da far ipotizzare perfino infiltrazioni amatoriali. Certo, tornando a quanto già detto, non dobbiamo dimenticare che mostrare una tragedia è più semplice. Tuttavia, come dimostra l’appena citato lavoro di Heidari, anche in una situazione priva di cadaveri e membra sparpagliate si possono ottenere immagini estremamente valide. Ma per farlo bisogna possedere uno spessore umano, speculativo e tecnico tale da consentire di entrare appieno nelle situazioni. Altrimenti ci si limita ad osservare il mondo con occhi annoiati almeno quanto lo saranno quelli di chi sarà costretto a osservare quei lavori.
Raccontata così The Impact Project potrebbe apparire come un fallimento, ma in realtà non è così. All’idea, e al Festival che l’ha accolta, resta comunque il merito di aver provato a sollevare un tappeto sotto al quale negli anni è stata nascosta un bel po’ di polvere. E, forse, insistendo per questa strada, un giorno o l’altro anche qualche fotografo davvero bravo si prenderà la briga di interrompere la litania di tragedie che racconta per farci vedere qualcos’altro. [ S. I. ]


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[ RISORSE INTERNE ]
Angkor Photo Festival & Workshops su FPmag
Mostre e proiezioni

[ video ] Una ricerca lunga un anno: intervista a Françoise Callier
[ video ] Con la didattica nel mirino: intervista a Jean-Yves Navel

[ RISORSE ESTERNE ]
Angkor Photo Festival & Workshops

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pubblicato in data 11-12-2015 in NOTIZIE / MELTINGPOT

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