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iIn un cimitero a Milano, luglio 2012.
© Anton O.

«[...] le cose migliori capitano all'uomo d'Occidente attraverso la sua messa in immagine, perché la sua immagine è la sua parte migliore: il suo io immunizzato, messo in un posto sicuro. Tramite essa il vivo coglie la morte»

Régis Debray *

Accade a tutti prima o poi, è inevitabile. A forza di fare qualcosa tutti i giorni, si finisce per covare l'illusione che certe azioni si possano reiterare all'infinito. Eppure ci sarà sempre un giorno in cui ognuno di noi compirà una determinata azione per l'ultima volta nella sua vita.
In una società in cui il consumo iconico è compulsivo, anche la rappresentazione di sé delegata all'immagine finisce per essere qualcosa che pensiamo di poter ripetere all'infinito, come suggerisce la... devastante diffusione dell'autoritratto fotografico negli ultimi anni. I selfie incarnano rappresentazioni estemporanee cui gli autori chiedono conferma della propria appartenenza al proprio consesso sociale nell'incessante produzione di frammenti di un puzzle che mai verrà completato. In questo convulso sfornare immagini autoreferenziali, però, nessuno sembra chiedersi quale potrà essere la traccia iconica che rimarrà a testimoniare il proprio transito terreno. Atteggiamento legittimo peraltro, ma che non tiene conto che tra le immagini scattate in un'intera esistenza ce ne sarà comunque una che qualcuno sceglierà a vantaggio di chi rimane, per raccontargli come eravamo. Quale sarà quindi la nostra ultima immagine?
Inquadrate in quest'ottica, quelle gallerie a cielo aperto che sono i cimiteri occidentali, costituiscono una fonte infinita di risposte e nuovi interrogativi. Un passaggio attento tra le tombe merita infatti riflessioni che non si limitino a considerazioni sulla natura effimera dell'esistenza umana. Nelle immagini presenti sulle lapidi (grabbilder in tedesco) convergono e si coagulano istanze comunicative complesse che meritano un minimo di analisi. In esse infatti si esprime l'essenza più profonda dell'immagine fotografica: l'astrazione, o meglio l'illusione di astrazione, dalle spire del tempo. L'immagine fotografica, preservando l'aspetto esteriore di cose ed esseri viventi, fornisce all'uomo un parziale sollievo alla caducità della sua condizione. Propone una sorta di placebo alle conseguenze del tempo, a quell'invecchiamento che inizia con la nascita e si conclude con la morte. Il ricordo di ciò che si era offre conforto a chi è rimasto, contribuisce a rinsaldare legami emotivi e sociali destinati a un oblio più o meno rapido dopo la scomparsa fisica del congiunto.
Si manifesta in un atto definitivo sovrapponendo un'immagine di vita a un involucro di spoglie mortali. Un gesto di egoistica pietà messo in atto per mantenere una flebile concretezza a legami ormai sciolti.
Per questo può essere interessante indagare sulle scelte fatte, in genere dai parenti, per ricordare i propri cari. Si rivelano così i legami con la fotografia vernacolare che irrompe prepotentemente nelle immagini tombali.
Nella fotografia che dovrebbe ancorare il ricordo dell'estinto, si possono riconoscere non solo i tratti del referente, ma soprattutto quelli del censore. Quest'ultimo agisce su una serie di scelte già fatte, probabilmente da altri (gli scatti in cui il defunto è rappresentato), selezionando in funzione della percezione che questi avevano del referente quando era in vita. Nella maggior parte dei casi si cerca quindi di tramandare quelli che si ritiene siano stati i tratti caratterizzanti della personalità. Il risultato a volte produce effetti di comicità involontaria che affondano le proprie radici nella già citata fotografia vernacolare. Quello che conta è ciò che è rappresentato, non tanto la modalità di rappresentazione, fatta salva la riconoscibilità del soggetto. Il tentativo di prolungare l'esistenza terrena oltre i suoi oggettivi limiti si concretizza, nell'intenzione di chi opera le scelte, in una iper sintetica rievocazione della vita o delle passioni del defunto.
Il risultato sconfina, a volte, in esempi di inattesa comicità involontaria, i cui effetti solo parzialmente sono mediati dall'ancestrale terrore della morte e da iconografie che trasmettono la distanza nel tempo e nello spazio rispetto ai soggetti raffigurati. Proprio grazie all'ironia e a un'iconografia che fa percepire il soggetto rappresentato come molto lontano nel tempo, l'emotività dell'osservatore professionale e disincantato può essere metabolizzata e controllata. I filtri però cessano di agire quando le immagini hanno il potere di far dimenticare la funzione che stanno assolvendo e il luogo in cui si trovano. È il momento in cui è impossibile pensare «non c'è più», ma ci si inizia a chiedere come possa essere quella persona, come se la si potesse ancora incontrare. E non potrà certo essere l'immagine, la stessa che crea l'illusione dell'esistenza in vita, a sollevare dagli interrogativi ancestrali che la morte pone all'Uomo. Forse non sarà nemmeno in grado di raccontare davvero qualcosa di chi è stato e non c'è più. Niente di più facile, anzi, che possa essere fedele solo alle intenzioni di chi l'avrà scelta.

[ Sandro Iovine ]

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(*) - Régis Debray, Vita e morte dell'immagine, Il Castoro, Milano, 1999; pag. 25.

iIn un cimitero a Milano, marzo 2012.
© Anton O.

iDa sinistra in senso orario:
In un cimitero nell'Alto Adige, aprile 2012. In un cimitero a Milano, maggio 2012.
In un cimitero a Milano, aprile 2012. In un cimitero a Milano, agosto 2012.
© Anton O.

iIn un cimitero a Milano, aprile 2012.
© Anton O.

iIn un cimitero a Milano, marzo 2012.
Anton O.

iIn un cimitero a Milano, luglio 2012.
© Anton O.

iIn un cimitero a Milano, febbraio 2012.
© Anton O.

iIn un cimitero a Milano, marzo 2012.
© Anton O.

iIn un cimitero nell'Alto Adige, agosto 2012.
© Anton O.

iIn un cimitero nell'Alto Adige, agosto 2012.
© Anton O.

iIn un cimitero a Milano, aprile 2012.
Anton O.

iIn un cimiero a Milano, settembre 2012.
© Anton O.

iIn un cimitero a Milano, giugno 2012.
© Anton O.

Anton O. - Nato a Bolzano nel 1975, dopo il liceo scientifico si trasferisce a Vienna per studiare Medicina. Contemporaneamente intraprende un percorso di studi in ambito teatrale, formandosi come attore e, per acquisire maggiore consapevolezza dei propri movimenti e schemi motori, segue il percorso del metodo Feldenkrais. In campo medico si specializza in Medicina complementare. A livello creativo sceglie ben presto la fotografia come strumento di espressione recandosi a Milano per approfondirne lo studio. Durante questo percorso ha vissuto in diversi paesi europei (Belgio, Germania, Austria, Spagna, Italia) e al momento lavora come medico proseguendo il suo percorso creativo in ambito fotografico.

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