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iLa madre di Isina tiene in mano lo strumento che sarà impiegato per la circoncisione.
© Meeri Koutaniemi/Echo Photo Agency.

Taken di meeri koutaniemi

Il racconto crudo di una pratica terribile, già ampiamente giudicata contraria ai diritti umani, ancora subita da moltissime donne in almeno 28 paesi del mondo

«Il bambino reggeva in mano una torcia, unica fonte di luce all’interno della buia capanna di fango. Mostrò la torcia a Nasirian, che giaceva a terra, nuda e legata. Il fascio di luce colpì le cosce nude di Nasirian. Tutto accadde velocemente. Una delle donne aveva un’ordinaria lametta tra le mani. Nasirian piangeva e il pavimento si stava ricoprendo di sangue. Più il sangue fuoriusciva e più la bambina urlava. Dopo pochi minuti i suoi genitali erano completamente irriconoscibili».
A queste parole – che costituiscono l’incipit del pannello introduttivo alla mostra Taken di Meeri Koutaniemi – seguono una serie di immagini in bianconero scattate dalla giovane fotoreporter finlandese.
Luci chiuse, neri profondi, atmosfera sospesa. Le inquadrature si susseguono stringendosi in dettagli via via meno intelleggibili, se privati di didascalia, per chi non ha dimestichezza con la cultura e le tradizioni masai.
Latte, mani, lamette, capanne, teste rasate e sguardi. Gli occhi velati di paura e rassegnazione di chi si prepara, con coraggio, ad affrontare ciò che non può evitare. Perché è la tradizione che lo chiede. Perché è la propria famiglia che lo vuole. Perché è la comunità che lo impone. Tensione crescente. Poi il ritmo cambia, si fa sincopato. Il dolore, quello fisico, quello che non puoi tacere nonostante gli sforzi, esplode all’interno delle inquadrature. Il momento è arrivato, il rito si compie.
Legata nel buio di una capanna, e trattenuta mani e piedi, Nasirian viene immolata sull’altare della tradizione e di una cultura che ancora fatica ad accettare l’indipendenza sessuale femminile. La giovane masai viene infatti privata per sempre del clitoride, delle grandi e delle piccole labbra e, con loro, dell’idea stessa del piacere.
Il racconto visivo di Meeri Koutaniemi della traumatica quanto consapevole esperienza di Nasirian apre così il sipario sul fenomeno delle mutilazioni genitali femminili (FMG) e sulla disuguaglianza tra i sessi. Una tematica complessa e delicata che assume in questo contesto i contorni di una pratica brutale che, purtroppo, coinvolge ancora moltissime donne in diversi paesi del mondo.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima infatti che siano più di 140 milioni le donne vittime di mutilazione genitali sul pianeta, seppur con pratiche e metodologie diverse. Le cause di questo fenomeno sono da ricercare in un insieme di fattori culturali, religiosi e sociali radicati tanto nelle famiglie quanto nella struttura sociale delle comunità che lo perpetuano. Spesso giustificate da credenze circa quanto viene ritenuto un comportamento sessuale appropriato, e avvalorate dal peso dato ora alla verginità prematrimoniale, ora alla fedeltà coniugale, ora al controllo sociale, queste pratiche rappresentano una forma estrema di discriminazione, su cui si impone una doverosa riflessione.

iLe ragazze masai Isina e Nasirian sono sedute nella capanna del padre, un giorno prima della circoncisione.
© Meeri Koutaniemi/Echo Photo Agency.

iDurante il taglio dei genitali Isina urla per il dolore.
© Meeri Koutaniemi / Echo Photo Agency.

Meeri Koutaniemi - sito webMeeri Koutaniemi - È una fotografa freelance di 26 anni, nata in Lapponia. Ha studiato fotogiornalismo all’Università di Tampere e, attualmente, si occupa di fotografia documentaria, concentrando il proprio sguardo su questioni politiche e sociali, come la difesa dei diritti umani e delle minoranze. Koutaniemi ha già lavorato come fotografa e giornalista in oltre trenta paesi, esposto le proprie foto in oltre venti mostre in tutto il mondo e girato documentari in Bolivia, Messico e Palestina. Nel 2012 ha ricevuto il Memorial Award di Tim Hetherington negli Stati Uniti, mentre nel 2013 si è aggiudicata il Memorial Award di Carina Appel in Finlandia. Sempre nel 2013 viene pubblicato in Finlandia il suo primo libro, intitolato Oasis. Sia nel 2012 sia nel 2013 Koutaniemi è stata inoltre selezionata come Fotografo dell’Anno in Finlandia e ha vinto nella categoria Foreign Reportage grazie al lavoro sull’infibulazione intitolato Taken. Grazie a quest'ultimo, nel 2014 ha vinto anche il FreeLens Award del Lumix Photo Festival di Hannover e il Visa d’Or pour la Presse Quotidienne di Perpignan. La fotografa è inoltre un membro fondatore dell’agenzia fotografica italiana Echo, nonché componente del collettivo di fotografi finlandesi chiamato 11, ed stata selezionata come partecipante al Joop Swart e alla VII Masterclass 2014. Attualmente organizza workshop di fotografia, portando avanti parallelamente il suo progetto a lungo termine riguardante la mutilazione genitale femminile in diversi continenti.

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Beautiful Child di laerke posselt

La violenza non è tale solo quando si manifesta nelle sue forme più estreme. A volte può essere qualcosa di più sottile e insidioso, soprattutto se riguarda i più piccoli

Accostare la parola violenza a dei concorsi di bellezza può far sorridere. Anche se si parla di concorsi di bellezza per bambini.
Cosa c’è di male nel mettere in mostra la bellezza della propria figlia? Cosa c’è di sbagliato nel farla ammirare e applaudire per le sue doti estetiche? Niente, in assoluto. O forse tutto.
Il lavoro della giovane Laerke Posselt – intitolato Beautiful Child e non certo unico sul tema (cfr. l'articolo successivo, intitolato Sono ancora bambine?) – si focalizza su una serie di concorsi di bellezza per bambine che si svolgono regolarmente in Alabama, Georgia e Carolina del Sud, offrendo alcune aperture notevoli sulla vita quotidiana di due giovanissime concorrenti, Sophia ed Evie, di due anni di età. Posselt ci mostra stralci della loro vita quotidiana, portando alla luce una quotidianità stravolta rispetto alla norma. Queste bambine infatti – come ci racconta la fotografa danese attraverso immagini e didascalie – trascorrono buona parte delle proprie giornate a imparare come muoversi e atteggiarsi sulla passerella, a farsi acconciare, truccare e abbigliare come bamboline da credenza, a sostenere la tensione della gara e il peso dei lunghi ed estenuanti preparativi.
Per molti, la colpa di questi concorsi è di incoraggiare le bambine a vivere degli stessi ideali degli adulti, a enfatizzare l’aspetto estetico e sessuale, inculcando loro indirettamente principi e valori quanto meno opinabili in relazione all'età. Ma per molti non è così. Sono in tanti infatti a pensare – famiglie coinvolte per prime – che competizioni di questo tipo aiutino a rafforzare la personalità, la sicurezza e l’autoconsapevolezza delle bambine.
Tutto questo ha fatto di recente scaturire un acceso dibattito circa queste competizioni, soprattutto visto il successo crescente che questo fenomeno sta avendo negli Stati Uniti e, in misura minore, in Europa. Il timore è che questi concorsi finiscano per commercializzare l’infanzia e interferire con la salute mentale e l’immagine di sé che hanno le bambine coinvolte. Oltre a privarle in qualche modo del loro diritto all’infanzia. Proprio sulla base di queste argomentazioni, nel settembre 2013 il Senato francese ha adottato una proposta legislativa per rendere i concorsi di bellezza per bambini illegali, mentre associazioni benefiche per la protezione dei diritti dell’infanzia nel Regno Unito stanno ancora protestando affinché il loro paese faccia lo stesso. La questione è complessa e sfaccettata, il dibattito aperto.

iJordyn di tre anni è appena stata incoronata con il titolo di Ultimate Grand Supreme al Big Trophy Pageant, a Vidalia (Georgia), e sta ora lottando per togliersi le finte ciglia.
© Laerke Posselt/Agence VU'.

iEvie, due anni, sta giocando sul tavolo da pranzo. Ciò che ama è il colore rosa e restare fuori all’aperto. Adger, Birmingham, Alabama.
© Laerke Posselt/Agence VU'.

iBimba di due anni che sta per entrare in scena al Big Trophy Pageant a Vidalia, in Georgia. Sua madre (la mano sul suo braccio) ha voluto che il suo nome non venisse reso noto. Un concorso di bellezza per bambini è una competizione che vede protagonisti dei piccoli che possono avere anche una sola settimana di vita. Nella preparazione le bambine vengono abbronzate con uno spray, truccate, vengono loro applicate ciglia, unghie, parrucche e vestiti con quante più finte gemme possibili. Molte delle bambine hanno inoltre denti finti e lenti a contatto.
© Laerke Posselt/Agence VU'.

Laerke Posselt - sito webLaerke Posselt - È una fotografa freelance danese, nata nel 1984, che attualmente vive a Copenhagen. Ha studiato Arte e Fotografia Documentaria a Fatamorgana e ha conseguito una laurea in Fotogiornalismo presso la Danish School of Media and Journalism. Durante il suo percorso scolastico ha inoltre svolto uno stage di diciotto mesi come fotografa presso il quotidiano danese Politiken. Il suo lavoro è apparso in pubblicazioni quali Politiken, The New York Times, Le Monde, Libération, Stern, GEO, Russian Reporter e Newsweek Japan, ed è stata inviata in diversi paesi, tra i quali Estonia, Spagna, Egitto ed Uzbekistan. I premi che ha ricevuto includono il PDN Photo Annual, il Danish Pictures of the Year, così come quello per la fotografia UNICEF dell’anno. Nel 2013, Posselt è stata nominata per la Joop Swart Masterclass e ha partecipato all’Eddie Adams Workshop. Tra il 2012 e il 2014 è stata membro dell’agenzia fotografica scandinava Moment, dopodiché è entrata a far parte dell’Agence VU’ nell’aprile 2014.

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I Just Want to Dunk di jan grarup

Quando la lotta per rivendicare il proprio diritto a giocare a basket diventa una battaglia per l’uguaglianza fra sessi. E non solo

Che la situazione in Somalia sia ancora oggi difficile e complessa è cosa nota. Meno noto è come i rigurgiti di una guerra civile che ha devastato il paese per oltre vent’anni si insinuino tuttora nella quotidianità dei suoi abitanti, violando anche gli ambiti più impensati.
I Just Want to Dunk di Jan Grarup è un lavoro che prova a mostrare le piaghe di un paese in difficoltà, e di una giovane generazione che non ha ancora assaporato la pace, attraverso la storia di Suweys, 19 anni, capitano della squadra somala di basket femminile, e delle sue compagne di squadra. Giovani donne somale che per coltivare la loro più grande passione sono costrette a mettere a repentaglio le loro stesse vite. Perché? Perché a Mogadishu – capitale martoriata del paese e città dove le ragazze vivono e si allenano – i componenti di gruppi militari come Al-Shabaab e coloro che sposano le posizioni più integraliste dell’Islam (compresi alcuni famigliari delle stesse giocatrici), interpretano il loro giocare a basket come un’adesione ai costumi del nemico giurato (l’America), nonché una sfida aperta alle posizioni islamiche più radicali in materia di diritti delle donne.
Un’interpretazione che costringe le ragazze a fare i conti con ritorsioni e minacce di morte continue, nonché a fare appello al proprio coraggio nella consapevolezza di sfidare letteralmente la sorte ogni volta che entrano in campo. Una delle punizioni proposte da Al Shabaab per ciò che viene di fatto percepito da molti come un vero e proprio affronto alla morale, infatti, è stata quella di tagliare a ogni giocatrice la mano destra e il piede sinistro. Oppure di spararle. E tutto questo nonostante nel 2011 il gruppo militare sia stato ufficialmente mandato via da Mogadishu dal Transitional Federal Government e dalle truppe dell’African Union.
Alle ragazze non resta quindi che fare una scelta: rinunciare a giocare, o continuare a farlo sperando che i muri crivellati di colpi che circondano il campo da gioco e la protezione degli uomini armati messi a loro tutela dall’associazione per il basket somala siano misure sufficienti a proteggerle. E a giudicare dalle immagini e dalle parole delle giocatrici riportate spesso in didascalia dall’esperto fotografo danese, la prima ipotesi sembra esclusa…

i© Jan Grarup/Noor Images.

i© Jan Grarup/Noor Images.

i© Jan Grarup/Noor Images.

Jan Grarup - sito webJan Grarup (Danimarca, 1968) - Nel corso della sua venticinquennale carriera, ha fotografato molte delle problematiche legate ai diritti umani e ai conflitti. Il lavoro di Grarup riflette la sua fede nel ruolo che il fotogiornalismo ha come strumento di testimonianza e memoria, tale da incitare al cambiamento, e alla necessità di raccontare le storie delle persone che non possono rendere pubblica la propria. Le sue immagini dei genocidi in Ruanda e Darfur forniscono con incontrovertibile evidenza l’inimmaginabile brutalità umana, nella speranza che eventi di quel genere non accadano più e non vengano più tollerati. Il suo lavoro The Boys from Ramallah and The Boys from Hebron mostra entrambe le parti dell’Intifada espresse tramite la vita del bambini. Le immagini di Jan Grarup portano i visitatori ai limiti della disperazione, della dignità, della sofferenza e della speranza. Le sue immagini formano il racconto dei tempi in cui viviamo, ma che spesso non abbiamo il coraggio di riconoscere. Jan Grarup ha ricevuto molti dei premi più prestigiosi dell’industria fotografica e delle organizzazioni per i diritti umani, tra cui otto World Press Photo, UNICEF, W. Eugene Smith Foundation for Humanistic Photography, Oskar Barnack Award, POYi e NPPA. Nel 2005 ha ricevuto il premio Visa d’Or al festival Visa Pour l’Image di Perpignan per il suo lavoro sulla crisi dei rifugiati del Darfur. Jan Grarup è rappresentato dall’agenzia tedesca LAIF e vive a Copenhagen, Danimarca.

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In/Visible di ann-christine woehrl

Il racconto struggente di quattro donne sfigurate che lottano per riprendere in mano le loro vite e la loro dignità di esseri umani

«Sono le loro cicatrici che attirano l’attenzione. Sono fissate senza discrezione o vengono ignorate completamente. Alcune persone distolgono immediatamente lo sguardo sentendosi a disagio o cercando di dimenticare quello che hanno visto. È più facile per una società ignorare coloro che sono diversi e quindi renderli invisibili.» – scrive Laura Salm-Reifferscheidt nel testo introduttivo alla mostra In/Visible di Ann-Christine Woehrl, e prosegue – «Tuttavia, non sono solo le cicatrici vistose di cui soffrono i superstiti di incendi o di aggressioni con acido. Sono le reazioni della gente alla loro vista che le confinano ai margini della società».
Quelle raccontate dalla fotografa franco-tedesca sono quindi storie di donne ferite e sfigurate non solo nel corpo, ma anche nell’anima. Storie drammatiche quanto angoscianti che, nell’insieme, riflettono purtroppo l’infima posizione ancora occupata da molte donne in alcune società del mondo.
In/Visible è infatti un lavoro dalla struttura articolata che, come afferma l'autrice, ha messo emotivamente a dura prova non solo le protagoniste degli scatti, ma anche lei stessa.
Per realizzarlo, Woehrl ha attraversato l’India, il Pakistan, il Bangladesh, l’Uganda, il Nepal e la Cambogia. In ogni paese, ha quindi ascoltato, intervistato e ritratto nella loro difficile quotidianità alcune donne sopravvissute ad aggressioni con acido, al fuoco o a tentativi di suicidio dovuti ai più disparati motivi, ma il più delle volte legati alla propria condizione di donna-oggetto di possesso. La fotografa ha poi seguito, per un periodo più lungo, una sola donna per ciascun paese, così da poterne approfondire la storia e realizzare un documentario approfondito sul tema.
In occasione della V edizione del Festival della Fotografia Etica, Ann-Christine Woehrl ha esposto le immagini e le testimonianze di quattro donne: Neehaari dall’India, Flavia dall’Uganda, Nusrat dal Pakistan e Renuka dal Nepal. Alcune delle loro parole le abbiamo riportate a margine delle foto pubblicate (basta aprire il pannello dedicato cliccando in alto a destra), proprio come in mostra. Un modo per rispettare quello che ci sembra il fine ultimo di questo lavoro: restituire voce, visibilità e dignità a queste donne maltrattate e il più delle volte abbandonate al loro destino di sopravvissute.

iKathmandu, Nepal, 2014.
Renuka tiene tra le mani una sua fotografia di prima dell’incidente quando viaggiava in India per visitare il Taj Mahal.
© Ann-Christine Woehrl/Echo Photo Agency.
IL RACCONTO DI RENUKA
«Il mio nome è Renuka. Vengo dal Nepal e ho 19 anni. Ho lasciato casa a 16 anni per andare a scuola e al lavoro a Kathmandu. Lì ho incontrato un ragazzo chiamato Saroj. Mi piaceva molto e mi seguiva ovunque. Mi diceva che avrei dovuto lasciare la scuola perché nessun altro ragazzo si innamorasse di me. Poi un giorno mi ha chiesto di sposarlo. Avevo po’ paura di lui perché era molto più grande – oggi lui ha 28 anni – e sembrava un gangster. Ma alla fine ho accettato di sposarlo, perché i miei genitori lo desideravano tanto. Ma i suoi genitori non mi hanno accettata perché appartengo a una casta differente. Sono rimasta incinta prima che ci sposassimo, e così i suoi genitori mi hanno fatto molte pressioni affinché abortissi. Volevano evitare uno scandalo. E la madre di Saroj mi disse che mi avrebbe accettata se avessi abortito e in questo modo ci saremmo potuti sposare. Un giorno Saroj e i suoi genitori mi portarono a un controllo medico. Il medico mi ha prelevato un campione di sangue. O almeno ho pensato che questo era quello che aveva fatto. Poi mi sono addormentata e quando mi sono svegliata erano iniziati i dolori del travaglio e ho dato alla luce un bambino morto. Mio marito mi aveva ingannato». «Ho sempre detto a Saroj che mi può lasciare, se vuole può sposarsi con un’altra. Credo di poter vivere da sola e lottare per il mio sostentamento. Mio marito ha preso le distanze dalla sua famiglia per causa mia. Mi sento molto male per questo. Se avessimo divorziato, lo avrebbero accettato di nuovo. Ma lui dice sempre che mi ama. Non vuole sposarsi con un’altra ragazza. Vuole guadagnare soldi in modo da potermi portare all’estero per ulteriori operazioni. D’altra parte, dice che mi vede bella e si preoccupa del fatto che, se facessi altre operazioni, qualche altro ragazzo potrebbe innamorarsi di me.»

iIslamabad, Pakistan, 2014.
Nusrat si prepara nel dormitorio del rifugio ASF.
© Ann-Christine Woehrl/Echo Photo Agency.
IL RACCONTO DI NUSRAT
«Il mio nome è Nusrat. Sono di Muzzafargarh in Pakistan e ho 32 anni. Mi sono sposata in una grande famiglia. E in cambio era stato organizzato il fidanzamento con mia cognata. Quando mio fratello è diventato abbastanza grande ha rifiutato di sposarla. Io l’ho appoggiato e aiutato a organizzare il matrimonio con la ragazza che in realtà voleva sposare. Questo è il motivo per cui mio marito e mio cognato mi hanno attaccata. Una mattina, nel 2009, mentre ero in una stanza con mio marito lui mi ha gettato addosso dell’acido. All’inzio non capivo cosa fosse successo. Poi i vestiti hanno iniziato a cadermi di dosso. Mi sentivo il corpo come se fosse in fiamme. Quando ho sentito odore di fumo, ho capito che era acido. Ho iniziato a urlare e sono corsa fuori, dove mio cognato mi ha gettato altro acido in faccia. Stavo urlando così tanto che la gente è accorsa. Mio cognato ha detto loro che mi ero gettata dell’acido addosso. I vicini mi hanno portata ospedale. Mentre ero in ospedale la mia foto è apparsa sui giornali. Il mio viso era gravemente sfigurato, e i miei suoceri hanno mostrato le foto ai miei figli dicendo loro che la madre si era trasformata in un mostro. Ciononostante, quando li ho visti di nuovo in tribunale per la prima volta, mi sono venuti incontro correndo. Avrebbero voluto consolarmi “Mamma, sarai proprio come eri prima. Non piangere”. Ho lasciato cadere l’accusa contro mio marito. Volevo solo tornare da lui, per vendicarmi. Così mi ha chiesto di firmare una carta dicendo che non lo avrei danneggiato. Ho rifiutato. Alla fine i miei parenti mi hanno convinto a lasciarlo e abbiamo divorziato. Sono stata in ospedale per cinque mesi. Quando sono stata dimessa mi sono trasferita nella casa di mia madre. Ero in cattivo stato; non riuscivo nemmeno a camminare da sola. Io non sapevo nemmeno quanto la mia faccia fosse malridotta. La prima volta mi sono vista in uno specchio sono svenuta. Le persone che mi venivano a trovare dicevano che sarei morta presto, in ogni caso. Mi guardavano e si spaventavano. Volevo solo farla finita. Mia madre è rimasta con me tutto il tempo. Non mi ha mai lasciata sola».

iPuligadda, Andhra Pradesh, India, 2012.
Neehaari presso la casa dei suoi genitori, mentre si pettina i capelli.
© Ann-Christine Woehrl/Echo Photo Agency.

IL RACCONTO DI NEEHAARI
«Mi chiamo Neehaari e vengo dall’Andhra Pradesh in India. Ho 25 anni e lavoro come assistente presso una clinica di chirurgia plastica a Hyderabad. Cinque anni fa i miei genitori trovarono un marito per me. Non volevo sposarmi, ma loro mi dissero di accettare. Quando parlai con il ragazzo al telefono era molto dolce, così lo sposai nel febbraio del 2009. Quindici giorni dopo si rivelò per quello che era, trasformandosi in un sadico psicopatico. Mi torturava sia fisicamente che mentalmente, trattandomi come una prostituta. Una mattina mi diede 100 rupie e disse che erano la ricompensa per la notte precedente. Rimasi a casa dei miei genitori per un po’. Mi chiamò per dirmi che aveva bisogno, come spesso accadeva, di una donna per la notte. I suoi genitori pensavano che lui fosse così perfetto. Quando ne parlai a mia madre, mi disse che ne avrebbe parlato a sua volta con i genitori di mio marito. Io ero così triste. Non potevo sopportare la situazione ancora a lungo ed ero incinta di due mesi. Così il 9 luglio del 2009, mi cosparsi di kerosene nella stanza dei miei genitori. Mio padre, che ne sentì l’odore, sfondò la porta, afferrò il fiammifero che tenevo tra le mani e mi spedì a farmi una doccia. Stavo pensando al futuro di mio figlio non ancora nato, se mai fosse stata una bimba. Avevo ancora con me i fiammiferi. Provai ad accenderli, uno dopo l’altro. Quarantanove non si accesero, tranne l’ultimo della scatola. Corsi verso la cucina. Mio padre mi verso dell’acqua addosso. Non ricordo i primi giorni in ospedale. La mia famiglia si sentì così in colpa dopo l’incidente. Erano preoccupati per il mio futuro. È stato difficile per loro avere ospiti in casa perché avevano paura della loro reazione. Rimasi nascosta nella mia camera per circa due anni. Non avevo idea di quanto accadeva al di fuori della mia stanza.»

Ann-Christine WoehrlAnn-Christine Woehrl - Nata nel 1975, Ann-Christine Woehrl è una fotografa freelance franco-tedesca che vive a Monaco, in Germania. Durante i suoi studi di fotografia a Parigi ha svolto uno stage presso Magnum Photos e ha lavorato per i fotogiornalisti David Turnley e Reza, frequentando parallelamente il Missouri workshop e l’Eddie Adams workshop. Il suo lavoro è teso a documentare situazioni della vita quotidiana di persone e comunità messe alla prova dall’ambiente sociale, culturale e religioso in cui vivono. Fino ad oggi ha lavorato principalmente in America Latina, in Africa e in India, ponendo grande attenzione su temi come la questione femminile a Cuba, le donne prigioniere in Colombia, le suore buddiste e le prostitute sacre in India. Alcune delle sue storie sono state pubblicate in libri e le sue immagini sono state esposte in occasione di varie mostre in Europa e Sud America. Il suo progetto Benin – la culla del rito Voodoo è stato pubblicato dalla rivista tedesca Terra Magica nel 2011. Per il suo progetto corrente In/visible, riguardante le donne sfigurate dall’acido, ha ricevuto un riconoscimento dalla fondazione tedesca VG Bild-Kunst/Stiftung Kulturwerk, a supporto della continuazione dello stesso. Inoltre le sono stati assegnati numerosi riconoscimenti ed è stata selezionata sia per la categoria Descubrimientos al Photo España di Madrid sia come candidata per il Terry O’Neill Tag Award 2012.

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Jeddah Diary di olivia arthur

Un’esplorazione, rapida e di superficie, del complesso mondo delle donne saudite

Di cosa tratta Jeddah Diary? Difficile dirlo con precisione a una prima lettura.
Ciò che le immagini mostrano è una serie di donne, più o meno velate, in diverse situazioni più o meno ordinarie. Ciò che salta agli occhi è che spesso gli scatti in cui tali donne sarebbero apparse a volto totalmente scoperto sono state ri-fotografate in modo che un bagliore, probabilmente del flash, ne nascondesse parzialmente i connotati. Indizio utile, ma chi sono queste donne? E perché fotografarle?
Il testo introduttivo alla mostra mi corre in soccorso, chiarendo che sono donne saudite e che Olivia ha stretto amicizia con loro dopo esser stata invitata a un workshop per fotografe locali. Segue quindi la spiegazione del contesto in cui si è trovata improvvisamente immersa e in cui è poi tornata più volte, quindi questa frase: «Con un rapido sguardo su una realtà che solitamente è strettamente inaccessibile agli occhi degli estranei, Jeddah Diary rappresenta una riflessione sulla natura della privacy e sulla sottile linea che esiste tra ciò che è consentito o meno vedere». Ritorno a guardare le immagini.
La fotografa inglese ha insomma provato a entrare in contatto con un mondo – quello delle donne saudite – notoriamente chiuso e inaccessibile, in cui le regole dell’interazione seguono principi differenti rispetto a quelli cui siamo abituati e le fotocamere sono quasi sempre indesiderate. Non potendo perciò muoversi all’interno di questa realtà come probabilmente avrebbe voluto, si è conseguenzialmente concentrata sulle barriere, culturali e non, che si frapponevano di continuo tra lei e i suoi soggetti, cercando di dare una propria interpretazione al tutto. La Arthur stessa afferma: «Ho provato a ricostruire la mia interpretazione di questa bolla – in cui le ragazze vivono – e le rigide regole a cui devono attenersi. Ma più aggiungevo elementi e meno mi sembrava di capire, in quanto le regole cambiavano da una situazione all’altra e alcune cose iniziavano a sembrare contraddittorie». Osservato in questa prospettiva, il lavoro acquisisce uno nuovo senso, molto interessante e del tutto inaspettato, ma per essere «un’esplorazione del controverso e complicato mondo delle donne saudite» rimane forse un po’ troppo in superficie.

iJeddah Diary.
© Olivia Arthur/Magnum Photos.

iJeddah Diary.
© Olivia Arthur/Magnum Photos.

Olivia ArthurOlivia Arthur - Nata a Londra nel 1980 e cresciuta nel Regno Unito. Ha studiato matematica alla OxfordUniversity e fotogiornalismo al London College of Printing. Ha iniziato a lavorare come fotografa nel 2003, dopo essersi trasferita a Dehli ed essere stata in India per due anni e mezzo. Nel 2006 è partita alla volta dell’Italia per iniziare una collaborazione con Fabrica, durante la quale ha lavorato a una storia sulle donne e sul divario culturale tra Oriente e Occidente. Questo lavoro l’ha portata al confine tra Europa ed Asia, in Iran e in Arabia Saudita. Il progetto è stato supportato grazie ad alcuni premi a lei assegnati, quali l’Inge Morath Award, the National Media Museum e OjodePez-PhotoEspana Award for Human Values. Nel 2008 è entrata a far parte dell’agenzia Magnum Photos come candidata diventandone, nel 2013, membro effettivo. Nel 2010 ha ricevuto il Vic Odden Award e ha fondato con Philipp Ebeling uno spazio per la fotografia a Londra, chiamato Fishbar. Il suo primo libro, Jeddah Diary, riguardante le condizioni delle giovani donne in Arabia Saudita, è stato pubblicato nel 2012.

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