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iI visitatori alla visita guidata della mostra UncleCharlie di Marc Asnin all'ex Chiesa di San Cristoforo a Lodi nell'ambito del Festival della Fotografia Etica 2014.
© Silvia Brambilla

Ha davvero senso parlare di fotografia in relazione al concetto di etica? A fonte del successo di pubblico della quinta edizione del Festival della Fotografia Etica sembrerebbe di sì, ma quella che di sicuro si impone è una doverosa e più ampia riflessione

La fotografia può davvero essere etica?
È un interrogativo che non si può fare a meno di porsi nel momento in cui si affronta la visita del Festival della Fotografia Etica, giunto quest'anno alla sua quinta edizione. Per chi ha seguito fin dal primo anno la manifestazione non si tratta di una domanda retorica, avendo dovuto affrontare fin dall'inizio, anzi soprattutto all'inizio, insistenti domande su quale fosse il reale significato della definizione implicita nel nome stesso della manifestazione.
Etica è quella fotografia – hanno sempre risposto gli organizzatori – che si pone come finalità quella di portare a pubblica evidenza e conoscenza situazioni di disagio di vario livello e natura per denunciarne l'esistenza e, se possibile, avviare una soluzione del problema. Etica è quindi quella fotografia che informando è in grado di produrre positivi effetti sociali.
Ciò che permetterebbe di definirla in questo modo va ricercato dunque soprattutto nelle intenzioni che ne determinano all'origine la produzione, ovvero nelle intenzioni del fotografo.
Se si prova ad analizzare questo concetto, dietro al velo delle parole, e lo si portandolo al netto degli orpelli retorici, quello che emerge è che dietro alla possibilità di definire etica un'immagine, altro non c'è che un corretto esercizio della professione giornalistica per come è stata intesa (almeno a livello teorico) alle sue origini. Il racconto dei fatti, depurato quanto più possibile delle scorie della soggettività interpretativa e fermo restando il dogma della concreta irraggiungibilità di una reale oggettività, non può infatti che produrre effetti sociali positivi. Bastano dunque le buone intenzioni del fotografo a fornire gli elementi necessari e sufficienti per definire etica un'immagine o una serie?
A mio avviso no, banalmente perché il problema non si esaurisce e non può esaurirsi nel momento della produzione delle immagini. Pur non negando l'importanza delle motivazioni che spingono allo scatto, non si può infatti dimenticare che la vita di un'immagine fotografica non si esaurisce certo nella sua nascita. Determinante è anche l'uso che di essa viene fatto. Diverso è infatti che essa sia impiegata a scopo informativo o, ad esempio, per promuovere una raccolta fondi. Nel primo caso l'immagine può venire plasmata sincreticamente alle finalità espresse dalla linea editoriale attraverso gli ancoraggi testuali della didascalizzazione e/o le forme della grafica nell'ambito della quale viene proposta. Nel secondo, senza entrare nel merito della legittimità e dell'onestà delle singole operazioni, i livelli di valutazione si possono moltiplicare esponenzialmente fino a far perdere di vista l'interrogativo iniziale. Tutto questo solo per dire, a fronte dell'indubitabile successo ottenuto nel corso degli anni da un Festival che pone al centro della sua attenzione la Fotografia Etica, che la vera questione posta dall'enorme affluenza di pubblico è relativa alla necessità di fermarsi un istante per prendersi il tempo di misurare le dimensioni e la consistenza di quel brodo primordiale di immagini che nel mondo contemporaneo ci circonda in ogni istante.
La risposta di pubblico al Festival della Fotografia Etica è un fenomeno importante non solo come riscontro positivo per il buon lavoro degli organizzatori. Ma costituisce soprattutto un dato interessante per chi le immagini le utilizza. La fotografia è un po' come un'arma bianca. In sé non è né buona né cattiva, si può usare per intagliare un'opera d'arte nel legno o per uccidere qualcuno. Se ci ponessimo più domande sul suo utilizzo probabilmente anche la sua produzione finirebbe per esserne influenzata.
Sandro Iovine

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