1 / 6       Eikoh Hosoe, Simmon: paysage intérieur, 1971. Avec l’aimable autorisation de l’artiste, Jean-Kenta Gauthier, Paris, et Akio Nagasawa Gallery, Tokyo. © Rencontres Arles.

2 / 6       Daido Moriyama, A Room, années 1980. Avec l’aimable autorisation de la Daido Moriyama Photo Foundation, Jean-Kenta Gauthier, Paris, et Akio Nagasawa Gallery, Tokyo. © Rencontres Arles.

3 / 6       Durante la visita alla mostra Another Language, Huit photographes Japonais. © Stefania Biamonti/FPmag.

4 / 6       Durante la visita alla mostra Another Language, Huit photographes Japonais. © Stefania Biamonti/FPmag.

5 / 6       Durante la visita alla mostra Another Language, Huit photographes Japonais. © Stefania Biamonti/FPmag.

6 / 6       Durante la visita alla mostra Another Language, Huit photographes Japonais: grossi problemi di leggibilità delle opere di Sakiko Nomura. © Stefania Biamonti/FPmag.

Another Language

L’esposizione Another Language prende idealmente le mosse da una mostra (New Japanes Photography) realizzata nel 1974 da John Szarkowsky al MoMA di New York. Se in quell’occasione il merito dell’esposizione fu quello di aprire le porte a un nuovo modo di intendere la fotografia, generato dal fermento culturale giapponese, nella mostra di Arles si offre al pubblico la possibilità di entrare in contatto con una declinazione culturale non sempre accessibile allo spettatore. Proprio nella sottolineatura delle differenze tra il portato iconico e simbolico occidentale e quello del paese dell’Estremo Oriente, si può individuare a nostro avviso il merito maggiore di questa raccolta di circa duecento immagini, di cui molte inedite.
In un alternarsi di autori consacrati da fama internazionale, altri meno celebri e artisti contemporanei, anche i soggetti delle ricerche dei singoli appaiono molto variegati. La mostra nel suo complesso si presenta dunque come un evento espositivo di grande interesse, a patto che non la si pensi come esaustiva di un panorama generato da un fermento culturale che richiede in ogni caso il possesso di adeguate chiavi culturali di lettura. Un esempio per tutti potrebbe essere costituito da Dogura Magura, il lavoro di Kou Inose, che per poter essere compreso al di là del mero aspetto formale richiede necessariamente la conoscenza dell’omonimo romanzo di Kyusaku Yumeno, ambientato all’interno di un ospedale psichiatrico dove il protagonista si risveglia e si trova a dover affrontare il dottor Wakabayashi che lo accusa di aver assassinato la fidanzata e dichiara di poterlo redimere dallo stato confusionale in cui si trova attraverso un complesso processo di interrogatori con i quali vengono individuati i punti fondanti della sua esistenza. In qualche modo ispirato alle vicissitudini del protagonista di Dogura Magura, Inose sembra procedere al recupero di una memoria di sé stesso cercando le tracce in forma di immagini della propria identità.
Discutibili alcune scelte di romanizzazione di termini giapponesi (vedi Dogra Magra) che sembrano ignorare la codifica Hepburn-shiki romaji, internazionalmente riconosciuta a favore di una traslitterazione che, a orecchio gallico, risponda all’esigenza di fissare il suono delle parole in caratteri occidentali. Interessante invece la proposta del poco conosciuto in occidente Masahisa Fukase che, con indubbio rigore, ha documentato in modo simbolico la deriva del suo rapporto con la moglie, riprendendola con costanza dalla finestra di casa.
L’allestimento nel suo complesso è minimalista e in generale può essere considerato di buon livello pur nello scontato primato assegnato ad autori come Moriyama o Hosoe. Deprecabile invece l’illuminazione utilizzata per le solarizzazioni di Daisuke Yokota e Sakiko Nomura, oggettivamente poco leggibili e solo da distanze imbarazzanti per prossimità alla superficie fotografica. Distanze, per altro, non raggiungibili nel caso di molte immagini di Yokota disposte a... quote non compatibili con l’altezza di un essere umano, anche di statura molto elevata. La conseguenza è stata quella di offrire allo spettatore eleganti pannelli neri privi di leggibilità, buoni, forse, come elementi di arredo in mano a un abile architetto, ma almeno improbabili nel contesto dell’esposizione di stampe fotografiche. [ S. I. ]

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ANOTHER LANGUAGE: Huit photographes Japonais
Eikoh Hosoe (1933), Masahisa Fukase (1934-2012), Daido Moriyama (1938), Massatoshi Naito (1938), Issei Suda (1940), Kou Inose (1960), Sakiko Nomura (1967), Daisuke Yokota (1983)

Église Sainte-Anne | fino al 30 agosto 2015
ingresso: 9,00 €

pubblicato in data 09-07-2015 in NOTIZIE / MOSTRE

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